Qualche domanda a Costanza Macras.

19 Dic

 COSTANZA MACRAS ….www.dorkypark.org
testo di Elena Basteri 

Intervista fatta e pubblicata da vonLudwig-Styles Report Berlin www.stylesreportberlin.com

 

Creare caos, promiscuià, scenari assurdi, bombardare lo spettatore con suoni, musica dal vivo, scenografie e costumi appariscenti è la formula che si ripete, con diverse declinazioni e tematiche, nel teatro danza di Costanza Macras, coreografa argentina alla ribalta della scena berlinese ed internazionale. Attingendo dalla cultura trash, pop e dal glamour à la Terry Richardson, le sue pieces sono un collage caotico e coloratissimo di movimento, testo, video e musica. Come in Scratch Neukoelln (2004), dove per parlarci della malleabilità e della permeabilità dell’identità culturale oggi, la Macras affianca ai performers della sua compagnia Dorky Park, ragazzini di famiglie immigrate della scena hip hop del quartiere multietnico berlinese. Il tema della spazzatura, delle macerie come ciò che rimane del passato nella memoria presente è al centro di Back to the present (2003), spettacolo messo in scena significativamente per la prima volta in un ex centro commerciale berlinese. Dopo una tournee a New York, Minneapolis e Seattle lo spettacolo tornerà in Europa per La grandes Traversee di Bordeaux (23-30 novembre) dove della Macras verranno mostrati, tra gli altri, Big in Bombay, Sure, shall we talk about it? e I’m not the only one. Il rapporto di coppia, la fragilità e caducità dei sentimenti sono i temi che affiorano dal rifacimento shakespeariano di “Sogno di una notte di mezza estate“, ultimo lavoro della coreografa, codiretto insieme a Thomas Ostermeier, direttore dello Schaubuehne, e ancora in questo teatro dal 6 al 9 ottobre.
Nel 2001, per la sua “prima volta” in questo teatro, la Macras aveva spostato l’azione dal palcoscenico ai bagni dei signori. Anche questa volta lo spazio è usato in maniera anticonvenzionale e giocosa: l’accesso al teatro da parte del pubblico avviene dal retro, si entra dalle quinte per trovarsi catapultati sul palcoscenico dove è in pieno svolgimento, con musica che raggiunge decibel da rave, un party selvaggio, una sorta di carnevale osceno. Veri e propri animali da party danno il benvenuto ai nuovi ospiti in tutine di raso rosa o abitini da eroine di cartoni giapponesi, offrendoci coppette di cocktails colorati. Dopo mezz’ora di scompiglio in cui pubblico e performers si mescolano e si confondono, ognuno recupera il suo ruolo. Spunta Oberon, il re degli elfi con stivali e cappello texani in boxer succinti, poi Puck il folletto pestifero nelle vesti di torero androgino post moderno. Inizia lo show ma non per questo finisce il caos anzi se possibile aumenta esponenzialmente per tutta la durata dello spettacolo.

Cosa hai portato con te dall’Argentina nel tuo bagaglio reale e virtuale, quando sei partita?

Una valigia piena dei miei vestiti preferiti, foto e regalini da parte dei miei amici.
Ma l’idillio è durato poco: arrivata ad Amsterdam la mia valigia è stata rubata. Ero disperata, a vent’anni ero molto fissata con i vestiti, e poi anche perché non avendo abbastanza soldi per rifarmi il guardaroba ho passato due mesi vestita come un clochard, con un paio di jeans di una taglia sbagliata prestati da un amico.
Nel bagaglio “interno”, invece, avevo molti sentimenti contrastanti: ero da una parte arrogante e determinata ma anche molto timida. Non volevo dare l’impressione di voler “rubare” il lavoro a nessuno. Avevo studiato moltissimo e mi ero preparata duramente perché volevo entrare nel Netherland Dance Theatre, dove poi non sono stata presa. Molta gente mi trattava con accondiscendenza, come la poveretta dal terzo mondo mentre io, provenendo da una famiglia di classe media, non ho mai conosciuto la povertà. Non saprei dire cosa conservo in me della persona che ero quando ho lasciato l’ Argentina, quel che è certo è che ci ho messo molto a diventare quella di ora.

Cosa ti ha portato e trattenuto a Berlino nel 1995?

Prima del 1995, anno in cui mi sono trasferita definitivamente ero già stata una volta a Berlino con un amico che aveva un progetto qui e mi sono innamorata a prima vista della città. Era così diversa da tutte le altre che avevo visto fino a quel momento. Berlino era in movimento, si trasformava sotto i miei occhi. Le altre città occidentali hanno una struttura già determinata e sono più statiche. Berlino aveva un’energia speciale sicuramente determinata anche dalla convivenza, in uno stesso spazio urbano, di anime tanto diverse come quella dell’est e dell’ovest Europa. Tornata ad Amsterdam ho partecipato ad un’audizione per Berlino e sono stata presa, così è iniziata l’ avventura.

Berlino è una città attraente da molti punti di vista per gli artisti di tutte le discipline. Mi immagino che sia difficile all’inizio emergere nello sgomitamento generale per farsi notare.


Si non è stato proprio facile all’inizio. Ma Berlino non è comunque paragonabile a New York dove ho pure vissuto e dove è molto più arduo. A Buenos Aires poi hai la possibilità di fare qualcosa solo se sei già qualcuno affermato. Qui è stato facile trovare gli spazi giusti e ben attrezzati tecnicamente. Si può lavorare a livello professionale anche senza essere già famoso. Al Sophiensaele ad esempio danno molto spazio e sostegno ai giovani.
La mia gavetta, comunque, è durata circa quattro anni dopo di che nel 2001 ho realizzato il mio primo spettacolo.


Parlando del tuo processo creativo: una volta scelto il tema di una coreografia come procedi per determinarla? Quanta libertà di autocoreografarsi lasci ai performers?

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All’inizio fornisco ai performers testi e materiale affinché studino. Dopo di che io propongo, do input per le improvvisazioni e loro lavorano su quelle liberamente. Ma poi la cosa è molto soggettiva, nella mia compagnia c’è gente molto diversa tra loro, ci sono ballerini ma anche attori. Ognuno per la sua esperienza o formazione è insostituibile.Con alcuni devo lavorare di più con altri di meno. La libertà però rispetta i limiti della struttura dello spettacolo. I miei pezzi sono normalmente molto strutturati, altrimenti il caos prodotto sul palco non funzionerebbe, se non “ordinato” in modo preciso.

Sei stata definita la regina del trash, i tuoi palcoscenici strabordano di cose. Come ti poni verso le tendenze attuali della danza ad un certo concettualismo minimalista?

Tutti dicono che le mie performance sono caotiche ma il caos prodotto da me è nullo rispetto a quello della vita reale! Basta osservare il tran tran in una piazza o in una strada per trovare situazioni molto più caotiche e complesse.
Per quanto riguarda il trend minimalista credo che ci siano diversi modi di vederlo: in molti casi credo ci sia anche un fattore economico ad influenzare il vuoto sul palcoscenico.
Non tutto ciò che vedo di questo filone mi piace ma quando il concetto è chiaro e funziona possono vedersi cose molto interessanti. Jerome Bel ad esempio mi piace perché è onesto in ciò che fa. Ma ciò che è triste è vedere chi cerca di imitarlo. Ciò che apprezzo del suo lavoro è la semplicità e il fatto che lascia alla gente il tempo per pensare. Non trovo il suo lavoro intellettuale anzi al contrario per me è semplice scoprire il meccanismo che sta alla base dei suoi pezzi. Mi è piaciuto moltissimo ad esempio il lavoro su Susanne Linke, (Le dernier spectacle, 1998, ndr) per l’ estrema accuratezza con cui ne ha ripreso i dettagli.


Tra il novero dei big, c’è qualche coreografo/a da cui ti senti particolarmente influenzata?

Non ho modelli particolari o nomi a cui faccio riferimento. Magari mi è piaciuto molto qualcuno che poi però è cambiato o io sono cambiata e non mi è più piaciuto. Per fare qualche nome ammiro molto Cunningham ma facciamo cose completamente diverse. O Pina Bausch… ma chi non ammira Pina Bausch?!

Qual’ è la sfida della danza contemporanea oggi?

Portare la gente a teatro e coinvolgere un maggior numero di persone soprattutto coloro che pensano erroneamente che la danza contemporanea sia qualcosa di oscuro, di difficile comprensione. Per i coreografi non c’è più il problema di essere originali ad ogni costo, ciò che conta è che la gente continui a porsi domande. La stampa berlinese ha ventilato più volte l’ipotesi di te come erede di Sasha Waltz allo Scahubuhne a fianco di Ostermeir. Sogno di una notte di mezza estate è stato la prima esperienza di co-regia. Come è andata, terreno fertile per una continuazione?

Avevo già avuto esperienza di co-regia con Lisi Estaras in No wonder. Quella volta è stato faticosissimo e molto stressante anche se Lisi è una mia cara amica. Con Thomas Ostermeier è andata molto bene. Eravamo tutti e intimoriti e consapevoli dai rischi che il lavorare insieme può comportare. Ciò ci ha reso molto previdenti e rispettosi. Non ho dovuto fare compromessi o rinunciare a scelte personali, ci siamo sempre coordinati con estrema naturalezza. A cominciare dalle audizioni: abbiamo fatto improvvisare i ballerini in coppie e ci siamo resi conto entrambi che quella era la strada interessante, abbiamo visto che il materiale su cui lavorare era enorme.

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