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4 Mar

 

ideazione e regia di Danio Manfredini sarà al Teatro India di Roma dal 31 marzo al 5 aprile 2009

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LABORATORIO TEATRALE condotto da Danio Manfredini dal 7 all’11 aprile presso il Kollatino Undergound http://www.kollatinounderground.org/

"…. Io ai miei maestri sarò grato tutta la vita, perchè non mi sono avvicinato con la pretesa di essere da loro ‘istruito’. Non ho mai chiesto: "fatemi diventare come voi". Sono persone che ho incontrato e che mi hanno dato forza e consapevolezza; mi hanno aiutato praticamente a saper attingere alle mie risorse…. Non puoi chiedere più di un azione al tuo maestro. Tuo è il lavoro, il percorso e il risultato….." da un’ intervista di Piergiorgio Giacchè a Danio Manfredini

Chi è Rodrigo Garcia?

22 Set

Rodrigo García nasce nel 1964 a Buenos Aires da genitori spagnoli. Lavora nella macelleria di famiglia in un quartiere di baracche nel Grand Bourg. Diplomato in Scienze dell’ Informazione, diventa pubblicista e scrive fino al momento in cui si trasferisce a Madrid, sua città di adozione, nel 1986.
"Sono stato rinchiuso per molti anni a lavorare come creativo pubblicitario ma una 4X4 e la famiglia mi sembravano inaccettabili come biografia definitiva."
Nel 1989 crea la Carnicería Teatro (Macelleria Teatro), con la quale elabora il suo particolare linguaggio teatrale: insolente, fisico, corrosivo e poetico, non narrativo e di grande qualità simbolica.
García è autore, videoartista, performer, scenografo e regista tra i più interessanti della scena contemporanea.Costruisce i suoi spettacoli integrando danza, arti plastiche, musica e parola, utilizzando uno stile sorprendente dove i corpi in movimento disegnano i nuovi rituali della quotidianità. I suoi testi "scoppiano come bombe", coniugano memorie del passato con l’attuale cultura popolare e sono stati tradotti e pubblicati in francese, italiano, inglese, finlandese, danese e polacco.
Attualmente la Carnicería gira il mondo con diversi spettacoli.

Il rapporto che si istaura tra te e i tuoi attori è molto forte, e fondamentale. lo fanno. Come ci riesci?
 
Come artista per me il lavoro vero è non avere pudore. E questa è la cosa più difficile, perché in qualche modo ti stai spogliando. Con i miei attori non c’è quasi mai problema perché quasi sempre la pensano come me. E fanno teatro per le mie stesse ragioni. Non sono professionisti che lavorano con altre compagnie, non fanno teatro classico, commerciale. Fanno un tipo di teatro contro il sistema e contro il teatro convenzionale. Una volta che le idee coincidono non c’è un problema vero per lavorare. Ci sono molti attori di teatro tradizionale che mi dicono che vorrebbero lavorare con me, ma non credo sia possibile. Non è un problema professionale, ma una questione ideologica, di condivisione di quello che ti piace della vita. Quando condivido tutto ciò con gli attori le cose nascono da sole. Io posso proporre qualche piccola improvvisazione e sono poi loro a portarle al limite estremo. Ci sono persone che credono che sia io, che mi dicono che li faccio sentire a disagio. Ma sono loro, perché anche loro sono consapevoli che se le cose che propongo non venissero portate al loro limite rimarrebbero una sciocchezza. Del resto, io lavoro sempre su azioni concrete, non parlo mai con gli attori del senso delle cose affinché le proposte siano abbastanza ambigue da caricare ogni attore della possibilità di svilupparle per conto proprio, nel modo che ritiene più opportuno. Non spiego mai, lavorando semplicemente in modo intuitivo, ed è questo che mi piace. Non faccio nessun lavoro a tavolino. C’è una fiducia totale.

sito compagnia : http://www.lacarniceriateatro.com 

Foo dello spettacolo "AFTER SUN" 2003
Di RODRIGO GARCÍA "La Carnicería Teatro".

"Il disordine, il suo fascino ci indispone perché ha in sé una perfezione irrisolta, come un organismo sempre sul punto di rivelarsi – spiega l’autore, videoartista, performer, scenografo e regista argentino –. chiamiamo disordine il preciso concatenarsi di eventi inconsueti che nel nostro intimo percepiamo come assoluti e che per questo tacciamo di imperfetti e di inutili (ho l’impressione che sia per paura). Detto questo, una manifestazione artistica dovrebbe essere un concatenarsi rigoroso di gesti che aspirano a un certo miglioramento”.RODRIGO GARCÍA

E’ un pò di tempo che sento questo nome vibrare nell’aria di molti teatri…pareri discordanti.                        

Voi avete mai visto qualcuno dei  suoi lavori? Io ho perso l’ occasione di crearmi un’ idea personale quest’ estate a Villa Adriana.

Ecce Pippo Delbono

5 Mag

 

foto dallo spettacolo "Guerra"

Biografia: Pippo Delbono nasce a Varazze nel 1959. Inizia gli studi teatrali in una scuola tradizionale, che abbandona dopo l’incontro con l’attore argentino Pepe Robledo, scappato dalla dittatura del suo paese. Con lui parte agli inizi degli anni Ottanta per la Danimarca, dove si unisce al Gruppo Farfa, guidato da Iben Nagel Rasmussen. Partecipa ai viaggi  e alle creazioni del gruppo e apprende le tecniche dell’attore danzatore orientale, che approfondirà nei successivi viaggi in India, Cina, Bali. Al ritorno in Italia comincia a lavorare alla creazione del suo primo spettacolo, "Il tempo degli assassini", dove nell’apparente gioco cabarettistico dei due attori che raccontano danzando le loro storie di violenza, droga, dittatura e vita, già si definiscono i segni di un linguaggio teatrale che caratterizzeranno tutti i successivi suoi lavori. Lo spettacolo debutta in Italia nel 1987, dopo una lunga tournée in Sudamerica in teatri ma anche in carceri e villaggi popolari. Nello stesso anno incontra Pina Bausch, e partecipa per un periodo a una delle creazioni del suo Tanztheater. È questa la seconda tappa fondamentale di un percorso formativo in cui il teatro incontra la danza per raccontare la vita. "Morire di musica", composizione poetica minimale e silenziosa allestita in uno stanzone invaso da centinaia di barchette di carta, è del 1989. Nel 1990 crea Il muro, prima sua composizione corale con attori e danzatori. Nel 1992 "Enrico V" da Shakespeare, il suo unico lavoro ispirato ad un testo teatrale, dove impersona il re e insieme al suo popolo in tenuta punk rivive la sua sfida all’impossibile. "La rabbia", omaggio a Pier Paolo Pasolini realizzato nel 1995, è il momento germinale di un modo di un modo di fare teatro compiutamente espresso in "Barboni," vincitore di un premio speciale Ubu 1997 “per una ricerca condotta tra arte e vita” e del premio della critica nel 1998. Un teatro aperto dove al di là delle convenzioni teatrali tutto viene svelato sulla scena, e soprattutto dove è abolito il confine tra attori e persone provenienti dalla vita. "Itaca", allestito nel cantiere navale di Pietra Ligure con quaranta persone tra attori e operai del cantiere, e "Her bijit" (il titolo è un congedo in curdo e significa “che tu possa vivere per sempre”) composto per la Biennale di Venezia con attori, musicisti, extracomunitari e rom, sono creazioni corali che indagano il rapporto con grandi spazi e che, esplorando nella tematica delle guerre nel mondo, porteranno ai nuovi spettacoli. Attraverso il successivo "Guerra" e il più recente "Esodo", opera dove il montaggio si avvicina ad una sorta di composizione cubista, Delbono prosegue l’avventura umana e artistica con le persone che costituiscono la sua compagnia. Quasi una tribù dove convivono attori – formati da Delbono con un metodo rigoroso definitosi in molti anni di insegnamento – con persone provenienti da realtà diverse. Come Bobò, microcefalo sordomuto incontrato al manicomio di Aversa, il senzatetto Nelson, Fadel profugo del Sahara e tanti altri. Nel luglio 2000 a Gibellina in Sicilia debutta "Il silenzio", che parla del terremoto del 1968 ed è rappresentato sul “Cretto” dello scultore Alberto Burri, un grande sudario di pietra bianca che copre la città distrutta. La memoria del terremoto si mischia a un mondo di circo e di festa e a parole e canzoni d’amore cantate da Danio Manfredini. Il lavoro della compagnia è seguito da molti giovani che in certe occasioni vi si uniscono,  soprattutto dopo la pubblicazione del libro "Barboni". Nel silenzio il gruppo si è allargato a più di trenta persone. Nel 2002 debutta al teatro delle Passioni di Modena "Gente di plastica", un universo visivo esuberante che si fonde con la carica revulsiva della musica rock di Frank Zappa e del testamento poetico di Sarah Kane.
 "Urlo",   ha debuttato per il Festival di Avignone, vede, accanto agli attori della compagnia, la partecipazione straordinaria di Umberto Orsini, Giovanna Marini e la Banda della Scuola di Musica Popolare di Testaccio.
Delbono ha realizzato il video Itaca in collaborazione con la Cineteca di Milano e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi nel 1991 e il video "L’India che danza" presentato nell’ambito del Festival Riccione TTV nel 1995. Inoltre, nel 2000 un cameo all’interno del film "L’albero delle pere" di Francesca Archibugi nel ruolo di Toni. Nell’anno 2001 alla Quinzaine des Realizateurs di Cannes è stato presentato il mediometraggio “Ecce Homo” di Miryam Kubesha, un film documentario sulla compagnia, poi proiettato anche al Moma di New York e al Festival del Documentario di Monaco. Nell’aprile 2004 ha ricevuto il David di Donatello come Miglior Documentario di Lungometraggio per "Guerra" realizzato durante la tournée in Israele e Palestina nel dicembre 2002 – gennaio 2003.

Intervista a Pippo Delbono di Paolo Randazzo

tratta da www.dramma.it  

C’è secondo te oggi una vera necessità per il teatro, per la sperimentazione e la ricerca di un nuovo linguaggio teatrale? In che cosa consiste?

«Credo che ci sia bisogno, oggi più che mai, di teatro, ovvero della complicità segreta e vitale che si crea tra scena e pubblico. Per quanto mi riguarda non mi sono mai sentito di aderire a nessuna forma di sperimentalismo, non ho mai sperimentato per il gusto di sperimentare. Credo invece che si debba stare con gli occhi aperti sul mondo che cambia, osservare come cambiano i codici espressivi delle arti e perché cambiano. Poi certo noto anche che spesso c’è un procedere a rilento di molto teatro che oggi gira si vede, ma credo che alla fine non si sia persa del tutto, e per quanto mi riguarda tento di non smarrirla mai, quella dimensione del teatro come luogo in cui ci si può soffermare su qualcosa di sacro, di diverso ed insieme profondamente vero. Il teatro deve far viaggiare e deve essere un linguaggio che ti porta a conoscere e ad abitare oltre le zone del comunemente conosciuto».

Qual è il rapporto tra il tuo fare teatro e la tradizione del teatro occidentale? Oltre l’avanguardia teatrale, europea ed italiana, quali sono i tuoi punti di riferimento artistici privilegiati?

«Ho avuto la fortuna di avere dei grandi maestri che mi hanno proposto una dimensione teatrale che in sé va già oltre la tradizione del teatro occidentale e della sua letteratura. Penso alla mia esperienza con l’Odin Theatre e la sua apertura alla dimensione corporea e danzante del teatro orientale; penso alla danza di Pina Bausch, con cui ho avuto la fortuna di lavorare; penso all’esperienza con Richard Cieslak, lo storico attore di Grotowskj. E poi ad altri maestri. Ecco, sono maestri che mi hanno consegnato una dimensione della teatralità che è già in sé diversa e più profonda di quella che viene considerata comunemente la nostra tradizione teatrale. Ma trovo che Shakespeare e Brecht siano stati sempre, e siano ancora, centrali nel mio lavoro, come mi capita spesso di pensare alla lezione di Pirandello, ch’è presente ad esempio in un frammento dell’Urlo. Si tratta di grandi maestri, ma poi bisogna anche essere consapevoli dell’autonomia del proprio percorso artistico: la mia storia adesso va avanti da qualche anno e occorre sapere che la vita e la storia devono essere i primi maestri».

Quale tipo di cultura deve avere oggi secondo te un uomo di teatro e, specificamente, un attore?

«Mi fa un po’ paura la parola “cultura”: a che cosa serve davvero? O meglio, credo che in un certo senso possa costituire solo una gabbia che può impedire di vedere davvero nel fondo della realtà, che può dar luogo a processi di semirimozione. Se invece per cultura si intende un percorso di approfondimento su di sé e sul mondo, allora sono convinto che di essa tutti, e non solo ovviamente la gente di teatro, abbia un grande bisogno. Per altro ci vuole anche del tempo: oggi troppo spesso gli attori vanno correndo da una produzione all’altra, da una fiction televisiva all’altra. E tuttavia resto convinto che il problema più grande sia piuttosto quello della gravissima mancanza di maestri che oggi sperimentiamo: ci sono tantissimi professori, ma pochissimi maestri. E per maestro intendo qualcuno che ti sappia incoraggiare a trovare il tuo percorso; che ti dà degli strumenti per leggere la realtà, ti dà un metodo, ma alla fine il percorso è solo tuo. È una grande responsabilità che oggi sentono pochissimi. Io ci provo con gli artisti della mia compagnia che per altro lavorano solo con me e sento tutto il peso di questa responsabilità. E però ci vuole tempo per essere maestri, tempo e pazienza, e solo nel tempo può succedere qualcosa che abbia valore. In questo senso trovo del tutto positiva l’esperienza che ho fatto qualche mese fa ad esempio all’Ecole de Maistres di Franco Quadri tra Udine e il Belgio: pochi allievi e un contatto continuo e diretto per almeno due mesi».

Tra le caratteristiche del tuo teatro mi pare ci sia una forte tensione alla ricerca dell’umanità, dell’essere uomo: nella diversità, nell’alterità o nella quotidiana violenza della normalità. Ti sei mai confrontato con la “banalità” dell’esistenza e più, in generale, della realtà?

«Si è così, ma senza sentirmi in nessun modo diverso dagli altri. Credo che il teatro ti permetta però di sperimentare un’attenzione diversa, profonda e intensa nei confronti della realtà e dell’umanità. Il teatro ti apre gli occhi. Ti permette di non farti trascinare dalla banalità. Dalla banalità che trasuda dalla televisione, dalla politica, dalla comunicazione quotidiana. Mi capita spesso oggi, ad esempio, di pensare che si stanno perdendo nella nostra società le voci profonde di una spiritualità: oggi ci sono soltanto dei religiosi che insegnano senza testimoniare, dei freddi venditori di regole morali».

Ulteriori informazioni e aggiornamenti al sito: http://www.pippodelbono.it

Non poteva mancare….anch’io mi sorprendo nel leggere la sua biografia, non sapevo dei suoi esordi nè del suo rapporto diretto con Pina Bausch. Mi sento fortunata ad avere visto alcuni suoi spettacoli, il ricordo più intenso al Teatro India 2003 "Gente di plastica", ho tenuto gli occhi spalancati tutto il tempo!

 

Una piccola ricerca: cos' è il Ki ?

16 Feb

Storia del Ki

Il concetto orientale di KI è di difficile definizione.
In Giappone, tale termine è usato quotidianamente a partire dall’instaurarsi della cultura cinese. Il KI esprime il concetto delle energie fondamentali dell’universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana. Nell’antica Cina, poiché era visto come la forza che originava tutte le funzioni fisiche e psicologiche, il concetto di KI venne ampiamente utilizzato nella medicina orientale, nelle arti marziali
ed in molti altri aspetti della vita a partire dalla vita militare; il concetto di KI fu utilizzato per determinare il massimo livello della forza dei soldati, per scegliere in base a ciò il movimento militare idoneo. In seguito, lo studio dei KI divenne una forma di pratica di predizione del destino, mediante l’abilità dell’indovino di leggere il KI di un individuo.
In Oriente il corpo e la mente non esistono come entità distinte. Quindi ogni lato della cultura orientale (la Filosofia, l’Arte, le arti marziali, la medicina) tentano con molto impegno e sforzo costante di giungere alla vita universale attraverso una comprensione empirica dell’unione di mente e corpo.

 

Il KI nella filosofia

La possibile traduzione dell’ideogramma  KI, è Essenza Individuale, cioè quella peculiare caratteristica che distingue ogni essere da tutti gli altri. Secondo una interpretazione spirituale o filosofica potremmo parlare di Anima, di Microcosmo, di Coscienza, di Psiche oppure più concretamente di Personalità, Individualità, Carattere, Identità. Ciò che importa stabilire ora è l’esistenza di una energia che muove dall’interno del nostro corpo (inteso come sistema Mente/Corpo) e gli permette di interagire con la realtà. La cellula è l’unità fondamentale della materia vivente, il suo cuore è il nucleo, il suo corpo è la membrana citoplasmatica. La membrana plasmatica non è solamente una barriera passiva tra l’ambiente esterno e quello interno della cellula, ma è capace di governare il passaggio delle sostanze che l’attraversano. Durante lo sviluppo dell’organismo, sono le cellule che evolvendosi e specializzandosi formano i tessuti. La cellula consiste quindi dei componenti essenziali, necessari al processo vitale, in grado di fornire a tutto l’organismo energia e materiali di costruzione. Il complesso delle reazioni che generano energia è detto respirazione interna, per distinguerlo dalla respirazione polmonare. Crescita, rinnovamento e riparazione sono le caratteristiche fondamentali di ogni tipo di vita. Nell’ essere umano esiste una memoria di un passato antichissimo, un collegamento con i primordi della vita ed esistono misteriose e segrete, le istruzioni per edificare l’intera vita. Le cellule sanno perfettamente quello che devono fare la crescita, la vita e la riproduzione. Questa conoscenza è una forma di energia, ed è in questo senso che si intende il KI, come energia ancestrale, primordiale, come memoria, saggezza e armonia interiori, collegamento a tutti gli esseri precedenti e conseguenti. Il Ki è l’essenza, il seme, il germe, il nucleo dove si condensa il significato della vita. Come la cellula conosce il proprio scopo, sa chi è e cosa deve fare e lavora instancabilmente per essere sé stessa, anche l’essere umano ha un preciso compito nella vita. Cercarlo, scoprirlo, comprenderlo e realizzarlo è la chiave della felicità.Ki è quindi la Forza Vitale che scorre in ogni organismo vivente. In Sanscrito è conosciuta come Prana, nella Medicina tradizional cinese si chiama Chi, e circola negli organi interni e nei meridiani generando i principali processi fisiologici come la respirazione, la digestione, la circolazione sanguigna e linfatica, la secrezione e l’escrezione. Nelle arti marziali indica la capacità di concentrare e dirigere il potere personale durante il combattimento, (Kumite). Le pratiche yogiche di respirazione o Pranayama mettono in condizione di accumulare l’energia all’interno del corpo, attraverso la meditazione, i mudra, i mantra possiamo interagire con il nostro equilibrio psico-fisico.

Il Ki (Chi) nelle arti marziali

"Nella pratica, quando il tuo avversario sferra un colpo, devi già essere in movimento. Dopo che l’hai visto muoversi, è già troppo tardi ed un falso movimento da parte tua è fuori luogo, perché il colpo del tuo avversario è quasi mortale. Muoversi simultaneamente con il colpo; si deve sentire l’intenzione dell’avversario. Ma, in realtà, non è questione di usare la mente, ci si deve muovere naturalmente, senza pensarci. Quando raggiungerai questo stato, riuscirai a muoverti simultaneamente con l’ordine. Se pensi troppo all’inizio del colpo dell’avversario, non ti renderai conto dei suoi movimenti. Solo quando la tua mente è tranquilla come una pozza d’acqua e sei fisicamente all’erta, potrai renderti conto dei movimenti dell’ avversario e della sua respirazione naturale. In questo stato sentirai i cambiamenti di sentimento del tuo avversario" di Ueshiba Morihei.

  Ueshiba Morihei – fondatore dell’ Aikido 1883-1969

Attraverso la respirazione il Ki si accumula e riempie tutte le parti del corpo. Ma viene emanata solo quando corpo e mente sono sereni e distesi.
Nell’Aikido o nel Taijiquan ogni gesto è un movimento di energia, nel Karate, nel Judo, nel Ju Jitsu non è importante la forza muscolare quanto l’abilità di gestire e direzionare il Ki.

Il Maestro Shingeru Egami (Shotokai) in un passaggio del suo libro Karate-Do Nyumon dice:

"Il problema della mente è profondo. La sua elevazione ad uno stato superiore, l’allargamento e la purificazione di sestessi, sono le ultime cose da conseguire per mezzo della pratica. Si devono allenare mente e corpo, perché diversamente la pratica non ha senso. Tentando di pulire la vostra mente dalle impurità della vita quotidiana, per mezzo del contatto spirituale con gli altri. La mente ed il corpo sono simili a due ruote di un carro, nessuna delle due ha il predominio. Questa è la pratica autentica. Ottenere qualcosa di valore spirituale nella vita è vera pratica. Entrando in contatto fisico con gli altri, si entrerà anche in contatto spirituale. Nella vita quotidiana bisogna arrivare a conoscere le nostre relazioni con gli altri, come ognuno di noi influisca sugli altri e come le idee si possano scambiare. Si devono rispettare gli altri e pensare bene di loro. Le persone devono essere mentalmente aperte e rispettose del benessere e della felicità altrui. In un combattimento, quando riuscirete a trascendere dalla semplice pratica, riuscirete ad essere una cosa sola con il vostro avversario’."

Il KI unifica la stessa base della mente e del corpo ed allo stesso tempo instaura una relazione reciproca con tutte le cose. Ogni cosa vivente deriva dal ki, il quale colma l’ universo. Il KI individuale ed il KI della natura sono uniti e s’influenzano reciprocamente. Il KI non è tangibile, ma attraverso le discipline orientali la mente può aprirsi ad esso avvertendone la presenza. Il maestro di Arti Marziali se lo specchio della sua anima è molto chiaro, vede tutto senza vederlo, distinguendo con esattezza senza distinguere.
Molte culture orientali si fondano su questo concetto. Per l’occidente il KI è un concetto nuovo e vista la predisposizione a vedere tutto in termini di analisi scientifica e culturale, non è facile da comprendere. Vi è un KI "innato" nella fonte della vita, il feto, e un KI "acquisito" che si accumula esternamente dopo la nascita materializzandosi in tre tipi precisi: Si crede che il KI fluisca prima attraverso il meridiano del rene e questa è la ragione per cui nelle arti marziali orientali il punto di energia più importante dei corpo è quello che si trova sotto l’ombelico e corrisponde al meridiano del rene: centro dei KI. Se si riesce ad individuare e controllare questo centro è possibile superare ogni tensione e trasformare tutto in ciò che emana il "centro". La sua influenza nelle funzioni della mente e del corpo dipende dalla visione dell’esterno che ognuno di noi ha. La vita è mantenuta da una relazione tra KI e mondo esterno.

Tratto da www.wikipedia.org

Enciclopedia aperta gestita da editori volontari. Ha come aspirazioni fondamentali contenuto libero ed articoli oggettivi.

DV8 physical theater

4 Feb

LLOYD NEWSON E IL DV8 PHYSICAL THEATER
di Sergio Trombetta da
www.romaeuropa.net

Hai una bambola gonfiabile? C’è qualcuno fra i tuoi amici che la possiede? Se l’avesse, lo direbbe? Che cosa significa essere uomo? Al di là del genere anagrafico, in che cosa consiste l’identità maschile? Riassumendo, e banalizzando, le teorie di Elisabeth Badinter, l’identità femminile si forma naturalmente; quella maschile è invece frutto di una costruzione artificiale, sottoposta a riti iniziatici, che poggia soprattutto su divieti: se non vuoi sembrare una femmina non camminare in quel modo, non parlare così, non vestire con certi colori, non mostrare certi sentimenti. Un’identità fragile, dunque, che ha costretto da sempre gli uomini a reprimere se stessi e quindi gli altri. Questo reciproco controllo poliziesco porta alla intimidazione, al mettere in ridicolo il diverso. La non conformità produce disgusto, paura, reazione violenta. Ci sono sacri recinti, esclusivamente maschili, in cui gli uomini mettono a prova la propria identità: i bar, le birrerie, i pub. Raccontare in uno spettacolo di danza, o meglio, di teatro gestuale, di teatro fisico, le dinamiche di confronto e sopraffazione, di autorepressione e adeguamento comportamentale è stata la scommessa vincente di Lloyd Newson con Enter Achilles, lo spettacolo più conosciuto e amato dei Dv8. Uno spettacolo che denuncia la propria doppiezza sin dal titolo, dove Achilles è il nome del pub in cui si entra, ma la frase in inglese è leggibile anche come penetrare Achilles. Un gruppo di uomini in un pub inglese, dunque. Juke box che suona e tv che trasmette football. C’è tensione, ambigua "camaraderie" e insicurezza, la debolezza è brutalmente sfruttata e la violenza nasconde vulnerabilità.
Emozioni, attrazioni, sentimenti devono restare segreti. E il gioco spesso consiste nel lasciar andare avanti l’altro, fargli credere che ci stai e poi, quando lui si lascia andare, picchiare duro. E l’amore con una bambola gonfiabile, più tranquillizzante della donna vera che chiama e lascia messaggi sulla segreteria, deve restare una vergogna che non trapela E la birra che scorre è simbolo della nostra liquidità corporea, i bicchieri di vetro rendono l’immagine della nostra fragilità.

Non si può certo dire che Enter Achilles, nato nel 1995 (presto portato sullo schermo dalla regista olandese Clara van Gool, un video che ha fatto incetta di premi), sia stato lo spettacolo rivelazione del coreografo Lloyd Newson e dei DV8, attivi da oltre dieci anni sulla scena inglese. Ma sicuramente è il titolo che più ha contribuito a far conoscere coreografo e compagnia. Tanto che a tre anni dal debutto è ancora vivo; anzi, torna a grande richiesta. «Occorre ridefinire la nozione di danza: quale deve essere il suo aspetto, come deve muoversi, sino a che punto danzatori vecchi, grassi e disabili devono essere incoraggiati a danzare e a parlare delle loro vite?», si domanda Lloyd Newson, e aggiunge: «Molte delle cose di cui mi occupo sono spesso considerate tabù sociali. Ma sino a quando non ci si interroga su questi temi e non li si esamina, mi sembra che la società non possa progredire».

Nasce in Australia, Lloyd Newson, e ha una formazione di psicologo. Proprio mentre completava i suoi studi in psicologia a Londra è nato l’interesse per la danza che lo ha portato a studiare alla London Contemporary Dance School. Dal 1981 al 1985 è danzatore e coreografo all’Extemporary Dance Theatre durante il quale lavora con coreografi come Karole Armitage, Michael Clark, Daniel Larrieu. Dal 1986 decide di staccarsi dalla compagnia e lavorare da solo con un proprio gruppo. Nasce così il DV8 Physical Theatre; un termine, "teatro fisico", ispirato alle teorie di Grotowski e che Newson ha meditato a lungo prima di adottare perché lo temeva troppo sfruttato per descrivere ogni tipo di danza contemporanea non tradizionale. Il mestiere di psicologo lo ha portato costantemente a chiedersi "perché": il perché di ogni movimento. Ammette: «gli studi di psicologia mi hanno aiutato a indagare i modelli di comportamento e di linguaggio e a immaginare come interpretarli fisicamente». Così, mettere in scena la vulnerabilità e l’insuccesso è diventato sempre più importante; spesso chiede ai suoi performer di rivelare qualcosa della propria personalità che non avrebbero mai voluto mostrare in pubblico. Un metodo di improvvisazione e scandaglio psicologico non lontano da quello di Pina Bausch. Questo modo di ragionare, e questa esplicitazione fisica di comportamenti e linguaggi ha portato il lavoro dei DV8 su terreni rischiosi, tanto che, per esempio, nello spettacolo MSM fu necessaria a Londra la presenza di un avvocato alla prova generale per stabilire se offendesse oppure no il senso del pudore. È proprio nei confronti del grande pubblico borghese, pronto a scandalizzarsi, che Lloyd Newson vuole prendere le distanze: «In quell’occasione mi sono reso conto che i valori e i principi politici dei DV8 non saranno mai quelli della maggioranza. E non mi interessa che lo siano anche se questo vuoi dire perdere grandi somme di denaro e avere un’audience più piccola». Del resto è il lavoro stesso dei DV8, ammette Newson, che richiede pubblici ristretti, teatri che permettano un rapporto intimo fra spettatore e performer. Per questo DV8 ha da subito intrapreso la via della trasformazione dei propri spettacoli in video, molti dei quali premiatissimi. La telecamera, con la ripresa ravvicinata sul particolare, riesce ad instaurare un rapporto di nuovo molto stretto fra pubblico e danzatore. «Creo soltanto quando ho qualche cosa da dire» precisa Newson. DV8 non è una compagnia stabile, ma riunisce danzatori sulla base di progetti, quando c’è un bisogno artisticamente motivato, più che una ragione commerciale e amministrativa.

Il primo lavoro dei DV8, My Sex, Our Dance del 1986, danzato con Nigel Charnock, nasce nel momento in cui esplode l’emergenza Aids, e indaga sulla reciproca fiducia che può ispirare il rapporto fra due uomini. L’anno successivo, con My Body, Your Body la compagnia esplora la psicologia delle donne che cercano relazioni con uomini facili, ispirato al volume Women Who Love Too Much. Ed è ancora un libro, l’anno successivo, il punto di partenza del nuovo spettacolo. Dead Dreams of Monochrome Men infatti è ispirato a Killing for Company il volume di Brian Master sul serial killer Dennis Nilson. Un lavoro che esplora la terra di nessuno fra il mercato della carne dei club gay e lo squallore di angosciosi monolocali, cancella la sottile linea di confine fra sesso e morte, ma è fondato anche sulla convinzione che la omofobia sociale è destinata a scatenare tragiche conseguenze: proprio in quei mesi prendeva vita nel Parlamento inglese il dibattito sulla Clausola 28, la legislazione che vietava agli enti locali di usare denaro pubblico per «promuovere l’omosessualità». Strange Fish del 1992 riguarda la natura del nostro bisogno di cercare qualcuno e di amare qualche cosa o qualcuno; la tirannia delle coppie e dei gruppi, il dolore del non appartenere, dell’esclusione, il terrore di restare solo: tutto è reso da una serie di potenti immagini. Ultimo arrivato in ordine di tempo, Bound to Please, del 1997, è stato definito un esercizio di sadomasochismo mentale, prima che fisico. Mette in discussione i concetti di bellezza e il bisogno di piacere agli altri. Esplora il deserto urbano dell’alienazione. Porta in scena oltraggiosamente nuda una danzatrice di 67 anni, Diana Peyne-Myers, e indaga sulle dinamiche che si possono instaurare fra lei e un giovane amante. Dopo Bound to Please, il successo di Enter Achilles, ampliato dal video che ha attraversato trionfalmente i principali concorsi tv (Prix Italia, Dance Screen), le insistenze di teatri e festival che volevano a tutti costi proporre lo spettacolo ai propri pubblici, hanno costretto Newson a un passo che non avrebbe mai immaginato di fare: rimontare un suo spettacolo. Ma per una volta il contravvenire ai propri principi da parte di Newson si è trasformato in fortuna: per noi spettatori, ovviamente.

Se non li conoscete informatevi, io ne sono rimasta sinceramente colpita. Ho visto un’ unico spettacolo dal vivo l’anno scorso "Just for show" al Teatro Olimpico di Roma. Vi consiglio una gita nel loro sito www.dv8.co.uk  . Su Emule trovate anche il video "The cost of living"….

Intervista a Jan Fabre

2 Gen

 

Testo di Francesca Astesani

da  http://www.undo.net 

http://www.dromemagazine.com/

 

 

 

 

 

Nato e cresciuto ad Anversa, dove tutt’oggi vive e lavora, Jan Fabre è un artista conosciuto per il suo versatile contributo in ambito artistico. Performer, regista di teatro ed opera, coreografo, editore, autore ed artista visivo di fama internazionale, Fabre è attivo come performance artist fin dagli anni ‘70, quando metteva in scena quelle che chiamava “performance private” in una tenda nel giardino della casa dei genitori. Attraverso l’uso di fluidi organici come il sangue, l’urina, le lacrime e lo sperma, questi primi esperimenti artistici univano la passione di Fabre per il disegno all’esplorazione della corporeità, come nella performance My body, my blood, my landscape del 1978, in cui eseguiva disegni utilizzando il proprio sangue.
Con il tempo i disegni sono cresciuti in scala, fino a raggiungere le dimensioni monumentali delle opere realizzate con l’inchiostro blu della penna bic, con cui, nel 1990, ricopre un intero castello nei pressi di Anversa. In questi lavori, che lo hanno reso famoso al grande pubblico, Fabre ha unito l’amore per il disegno all’altra grande passione che ha ispirato la sua ricerca artistica: lo studio degli insetti, che racconta di avere ereditato dal bisnonno, il famoso entomologo Jean-Henri Fabre. Le opere di “bic-art” sono infatti ispirate all’“Ora Blu”, concetto usato dal bisnonno per definire il momento di passaggio tra la notte e il giorno, quando gli insetti notturni vanno a dormire e si risvegliano quelli diurni (la collezione limited edition da sei tazzine ideata da Fabre per Illy si chiama proprio “L’ora blu”). L’interesse di Fabre per gli insetti è testimoniato anche dall’uso ricorrente, nella sua opera, degli scarabei. La passione per questo animale, sfociata in una vera e propria beetle-mania, ha la sua celebrazione più grandiosa nell’opera realizzata per il Palazzo Reale di Bruxelles, il cui soffitto è stato ricoperto da Fabre con milioni di scarabei.
L’ispirazione artistica di Jan Fabre ha coinvolto fin dagli esordi la passione per il teatro, l’opera e la danza: alla fine degli anni ‘70 scrive le sue prime pièce teatrali e dal 1980 è coinvolto con successo anche in questi ambiti. Ad oggi la realizzazione dei suoi progetti teatrali e coreografici viene sostenuta da “Troubleyn”, teatro ed associazione di ricerca artistica istituita da Fabre ad Anversa. Jan Fabre è dunque un artista eclettico, che tuttavia rifiuta questa definizione, perché considera ogni campo della sua ricerca artistica come organicamente connesso a tutti gli altri; il teatro, la scultura, il disegno, la danza… sono solo mezzi di espressione differenti, che vorrebbero esprimere un pensiero artistico organico.
Riuscire ad avere un’intervista con Jan Fabre non è stato facile… ma alla fine ce l’abbiamo fatta, e l’intervista che segue è il frutto di una lunga conversazione telefonica nel cuore della notte tra Milano ed Anversa. Io e Jan Fabre ci eravamo incontrati per la prima volta due giorni prima, a Ginevra, alla vernice della sua mostra “Je me vide de moi-même”, inaugurata il 14 settembre alla galleria Guy Bärtschi; per una strana e lunga serie di contrattempi l’intervista programmata a Ginevra non è stata possibile, e così ci siamo ritrovati a parlarci a tarda notte, chiacchierando fino quasi all’alba del suo lavoro di artista ma soprattutto della sua filosofia di vita. Poco di quello che avevo progettato di chiedere a Fabre è rimasto in una conversazione rizomatica, che ha seguito vie inaspettate e connessioni non previste.

DROME: Vorrei iniziare la nostra chiacchierata con una delle opere esposte alla galleria Guy Bärtschi, l’installazione “Messagers des morts décapités”. In quest’opera forma antropomorfica ed animale si fondono; che relazione c’è nel tuo lavoro tra l’animale e l’umano?

JAN FABRE: Nell’opera c’è una mia interpretazione. Gli occhi umani e la forma antropomorfica trasformano le teste di civetta in maschere. Mi riferisco dunque al carnevale, che è un tema che ricorre anche in un’altra opera esposta, ovvero l’istallazione con i cani che apre la mostra (Le carnaval des chiens de rue morts, NdR). In quest’opera anche i cani sono delle maschere. E’ un pezzo su ciò che il carnevale significa.

D: Che valore attribuisci al carnevale? Al giorno d’oggi l’idea stessa sembra non incarnare più il suo significato originario di rottura, inversione e sospensione dell’ordine quotidiano. Il carnevale è spesso un evento spettacolarizzato, svuotato del significato simbolico originario…
JF
: Sì, certo. Ma per me il carnevale ha ancora valore nella sua forma simbolica. Poiché io nei miei lavori non mi riferisco al contemporaneo ma tento di tornare indietro e riportare nel presente valori e simboli che appartengono al pensiero medievale. Per me il carnevale è ancora una festa per celebrare la carne.

D: Come può funzionare il pensiero medievale nel mondo contemporaneo?
JF:
Credo che tutto il mio lavoro sia costruito intorno all’idea di restaurare i valori di un pensiero simbolico. Come dicevi tu stessa, nella società in cui viviamo tutto ha perso il suo valore, tutto è trasformato in eventi spettacolarizzati e la gente non pensa più ai contenuti reali. In Belgio, come in altri paesi, la gente vuole i cani ma poi li abbandona quando deve andare in vacanza. Nell’opera ho usato veri cani abbandonati per strada, che ho raccolto morti e fatto imbalsamare.

D: Perché proprio il cane?
JF:
Perché il cane randagio, come il cane abbandonato, è una metafora dell’artista. Come per il cane, la società vuole l’artista ma nello stesso tempo lo lascia in autostrada, lo emargina.

D: Questa immagine dell’artista ai margini della società, in un tempo in cui l’arte è così profondamente istituzionalizzata e coinvolta nel mercato, è un’idea piuttosto romantica…
JF
: Infatti io non sono un artista contemporaneo.

D: Però sei un artista che vive nel mondo contemporaneo.
JF
: Sì, ma questo non significa che io debba utilizzare i mezzi e gli strumenti della contemporaneità. La maggior parte degli artisti usa i mezzi di comunicazione propri della società contemporanea, molti sfruttano il potere dei mass media. Se si guarda al mio lavoro, questi mezzi espressivi non sono presenti. La mia arte rifiuta il cinismo, rifiuta l’ironia e tenta di restaurare valori che abbiamo perso. In particolare, nella nostra società, la gente non ha più la capacità di interpretare i simboli. Io sono interessato a recuperare una forma di sapere simbolico. Questo è il motivo per cui uso molti elementi simbolici nel mio lavoro; per me tutto questo ha un valore etico.

D: Questa questione mi interessa molto, qual è il dialogo tra arte ed etica?
JF
: Non conosco molta arte contemporanea, ma posso dire che attraverso le mie opere io cerco di creare nuove possibilità di sguardo sul mondo, di aprire nuovi universi, e di non essere svuotato dal mondo esterno, dal mondo contemporaneo. Ciò che ispira il mio lavoro è una fede costante nell’umanità, una perenne empatia nei confronti della vita.

D: Ritorniamo alla tensione tra l’umano e l’animale nella tua opera.
JF
: Nel mio lavoro io racconto la trasformazione. Dell’uomo nell’animale e dell’animale nell’uomo. Per me questo è un omaggio all’animale poiché io credo che gli animali siano ancora i migliori dottori e filosofi del mondo.
Questo divenire si deve intendere come divenire “qualcosa” d’altro, non “qualcun” altro.

D: Che cosa intendi con questo qualcosa d’altro?
JF
: Ho un esempio per aiutarti a capire. Pensa al modello dell’angelo – io ho usato spesso figure di angeli nella mia opera -. L’angelo è perfetto, immobile, unico, senza colpa. Ora pensa al modello dell’umano: è in movimento, non è unico, è colpevole. Il modello dell’umano e quello dell’angelo sono opposti l’uno all’altro. Nel tempo l’uomo è cambiato, si è modificato, vi è una continua tensione nell’uomo nel divenire qualcosa d’altro. Io credo che questa possibilità di metamorfosi sia dovuta al fatto che l’uomo ha ancora l’istinto, e quella è la sua parte animale.

D: “Messagers des morts décapités” rappresenta sette teste di gufo dalla forma antropomorfica.
Perché i gufi della tua installazione sono decapitati? Che cosa significa il loro essere senza corpo? Il gufo è inteso come messaggero di saggezza?

JF
: No, non solo. Nella mia opera ho utilizzato sette tipi differenti di gufo. Se guardi ai dipinti classici, capirai che vi sono diverse simbologie connesse a tale animale. C’è il messaggero della morte, che si trova spesso dei dipinti di Bosch, c’è il gufo della saggezza, c’è quello bianco che è il guardiano degli uccelli e della vita spirituale e così via. Ognuno ha una diversa connotazione.
L’idea della decapitazione è connessa ad un rifiuto dell’uso illuministico della ragione. L’opera è una celebrazione della morte, di uno stato di post-morte nella vita. Per esempio, nella mia vita io sono stato in coma due volte; al risveglio dal coma ci si trova in uno stato di post-morte in cui ogni movimento, ogni respiro, è più intenso, più estremo.

D: Intendi dire che se ci dimentichiamo della morte ci dimentichiamo anche della vita?
JF
: Sì. La morte ci tiene desti.

D: La morte non ti fa paura?
JF
: No. Viviamo in una società in cui la morte viene nascosta “sotto il tappeto”. La morte oggi non viene più celebrata come un tempo, nemmeno in paesi cattolici come l’Italia o il Belgio. Pensa ad esempio ai cimiteri, nessuno costruisce più tombe monumentali, l’arte dei monumenti mortuari non esiste più. La celebrazione della morte per me significa rispetto per i morti, significa che i morti esistono ancora. Voglio dire… i morti parlano… in senso metaforico, naturalmente. Nella nostra società sono tutti impegnati a lottare per avere successo, per essere popolari, per essere “ora” ed “oggi”, nessuno si preoccupa più della vita dopo la morte.

D: Credo che questo accada perché non abbiamo più il senso di una metafisica della vita…
JF
: Sì, è una questione di mancanza di credenza, ed è la ragione per cui la società è divenuta cinica. Tutto il mio lavoro è un rifiuto di questa attitudine nei confronti della vita. Il mio lavoro non parla della vita come vita totalmente terrena, il mio lavoro non comunica cinismo. Viviamo in un mondo in cui tutto è posto sotto assicurazione, tutto è controllato. La società è addirittura spaventata dagli istinti; non possiamo più essere animali. Infatti, invece di utilizzare i nostri sensi animali, inventiamo apparecchi per vedere meglio, per sentire meglio, inventiamo i computer, le ecografie, studiamo e studiamo sempre più nel particolare, eccetto che ci dimentichiamo della vita.

D: Quello che dici mi fa pensare a come la maternità stessa non sia vissuta come un processo naturale. La crescita del bambino viene controllata ogni mese attraverso la rappresentazione visiva dell’ecografia. Questo appare come un tentativo di controllare la vita e il corpo della donna, che ha in sé un potere ed un “eccesso”: quello di dare la vita.
JF
: Certamente, infatti le due statue di donna esposte alla mostra a Ginevra (Histoire de larmes [sculpture de larmes I & II], NdR), sono un omaggio alle madri, alla donna: le guerriere più belle del mondo. Il corpo della donna viene sempre penetrato dall’esterno, in tutti i sensi, e nello stesso tempo contiene e porta con sé i suoi fluidi corporei.

D: Spesso hai definito te stesso e i tuoi collaboratori “guerrieri della bellezza”. Mi parleresti di questa idea?
JF
: Questa è di nuovo un’idea piuttosto romantica e “old-fashioned”, ma io credo che il romanticismo sia “avant-garde”. Per me essere un guerriero della bellezza significa lottare per la giusta causa, battersi per la giustizia. La bellezza è un valore etico, l’estetica e l’etica sono per me la stessa cosa. Per me, essere un artista è un lavoro molto serio.

D: Pensi che l’arte abbia un valore politico?
JF
: Io spero di curare le ferite nella mente e nell’animo delle persone.

D: Dunque l’arte sembra avere un potere di “cura” a livello individuale, più che sociale…
JF
: Beh, sì. Perché anche quando cinquecento persone visitano, diciamo, l’inaugurazione di una mia mostra… questo rimane, comunque, un evento marginale. Se vuoi raggiungere la massa, devi usare altri mezzi di comunicazione, che sono quelli che io rifiuto. Nelle mie mostre, attraverso le mie opere, io voglio creare una sorta di luogo spirituale, rituale. Questo è molto difficile perché l’unica fede è oggi il denaro, la pubblicità, l’immagine. Gli ultimi luoghi sacri sono gli uffici delle società che fanno più soldi.

D: Anche il mondo dell’arte è piuttosto influenzato dal mercato e dal profitto economico, qual è dunque la tua posizione?
JF
: Quello che sto cercando di dire è che io voglio creare con la mia opera un universo differente. Non sono interessato ai linguaggi pubblicitari… molti artisti contemporanei di successo utilizzano gli stessi mezzi di comunicazione delle grandi multinazionali, ovvero il linguaggio che controlla il mondo. Io rigetto tutto questo, e ciò significa che tento di offrire al mio pubblico la possibilità di un diverso ordine di regole, una diverso modo di pensare il mondo. Io sono profondamente convinto che bisogna continuare a credere. L’uomo è in continuo cambiamento e metamorfosi. Per esempio, viviamo in un mondo popolato di insetti, e ancora non sappiamo quasi nulla del loro linguaggio, che è molto più difficile e complicato del nostro. In fondo, dobbiamo ricordarci che utilizziamo solo il venti per cento delle potenziali capacità del nostro cervello. Io credo ancora, perché credo nel potenziale dell’umanità. E’ una questione di trovare il giusto metodo di “consilience”.

D: Che cosa intendi per “consilience”?
JF
: Ti faccio un esempio: immagina di essere un entomologo, e di studiare il comportamento degli insetti, in particolare, diciamo, la loro intelligenza genetica. Un altro scienziato studia la stessa cosa nell’essere umano. Queste due conoscenze possono essere collegate ed attraverso un confronto si sveleranno le similitudini e i legami tra queste due diverse forme di vita. Questi nessi portano alla possibilità di nuove interpretazioni sia del modo di concepire l’intelligenza umana che quella dell’ape. Così si possono comprendere molte cose su di noi, come ci muoviamo, perché, …

D: Un’altra scultura esposta alla tua mostra (“Dependens”) rappresenta un uomo impiccato, il cui corpo è ricoperto da puntine da disegno, che costruiscono l’effetto di una sorta di seconda pelle. Questa è una tecnica che utilizzi sin dai tuoi primi lavori…
JF
: E’ una seconda pelle. Gran parte del mio lavoro si basa su un’idea umanistica del futuro. Che uomo sarà quello del futuro? Come sopravviverà? Che caratteristiche fisiche svilupperà? Che tipo di pelle avrà? Nella mia opera ho spesso creato sculture che rappresentano monaci, creature spirituali, ricoperti di ossa umane ed animali… questa copertura esterna è per me il risultato di una metamorfosi dello scheletro interno allo scheletro esterno, come ad esempio quello degli scarabei.

D: Avere un corpo diverso modificherebbe anche il nostro modo di pensare?
JF
: Certamente. Un corpo che non può più subire ferite ci allontanerebbe dalla sofferenza.

D: Anche le nostre ferite psicologiche sarebbero curate da uno scheletro esterno?
JF
: Sì, perché non potremmo più sanguinare, e credo che nel momento in cui fossimo protetti da una nuova pelle penseremmo e sentiremmo in modo diverso. Forse sarebbe un altro modo di soffrire che non possiamo comprendere ora… la sofferenza è solo umana, gli angeli non soffrono.

D: D’accordo… diciamo una cosa assolutamente banale… se qualcosa di umano restasse in noi, potremmo ancora essere feriti dall’amore, ad esempio.
JF
: Speriamo, speriamo… In fondo credo che tutto questo lavoro sull’invulnerabilità dell’uomo non sia altro che una riflessione e una celebrazione della sua vulnerabilità. E poi per me di sicuro è anche un rifiuto della tecnologia delle protesi umane. Vogliamo cambiare il corpo dell’uomo e cosa utilizziamo? Protesi tecnologiche. Io sono contrario a questo tipo di modificazione del corpo. Il mio lavoro è tutto ispirato ad un ritorno al corpo umano, al corpo animale. E’ una difesa della bellezza e della vulnerabilità dell’uomo, una celebrazione della sua vulnerabilità.

D: Che cos’è l’utopia per te?
JF
: Sai, ho fatto una performance quando avevo diciotto, diciannove anni… era il Settantotto o Settantanove… era un omaggio a Thomas More. Non molti sanno che More ha scritto Utopia ad Anversa. Io mi sono messo di fronte alla casa in cui More aveva abitato e lavorato e ho celebrato il suo messaggio. Molti pensavano che fossi un mezzo matto, era come gridare nel deserto… come i profeti.

D: Sei religioso?
JF
: Diciamo che credo. Credo nell’immagine e nell’idea di Cristo, e nella Chiesa come forza spirituale. Ma non sono cattolico e non frequento la chiesa. Non credo nella Chiesa come istituzione ma credo nei principi del cristianesimo, come dottrina di carità e perdono. Credo anche nella preghiera come esercizio della mente e spero di riuscire, con le mie opere, a creare un’atmosfera di contemplazione.

D: La galleria o il museo, pensi che possano ancora essere luoghi in cui è possibile creare tale atmosfera contemplativa?
JF
: Sì, io credo di sì. E’ questo il motivo per cui non sono un artista contemporaneo. Sono un artista romantico, ma come ti dicevo prima il romanticismo è vera avant-garde. Per me, questo modo di pensare, questa sensibilità romantica, sono come lavorare nel mercato nero. E’ contrabbando di pensiero, fare le cose a modo proprio, creare il proprio sistema.

D: Trovo tutto questo affascinante, ma c’è un interrogativo che dentro di me non tace. Tu dici di voler sfuggire alle logiche del mondo contemporaneo, di voler restaurare un pensiero che non appartiene più a questo mondo… Ma come puoi pensare di utilizzare gli spazi dell’arte contemporanea sfuggendo alle loro connotazioni culturali ed economiche? Come può essere l’utopia, senza una critica della posizione storica e sociale dalla quale si parla?
JF
: Io credo che l’aspetto critico sia presente nella mia opera, e che sia veicolato dalle opere stesse, che da sole, parlando di altri mondi ed altri universi, aprono nuove possibilità.

D: Che artisti contemporanei apprezzi?
JF
: Mi piace molto Ilya Kabakov (con il quale ha collaborato per il film An Encounter, NdR). Ma i miei veri eroi sono i pittori classici fiamminghi e gli scienziati, il cui lavoro mi influenza profondamente. Penso che la scienza sia molto più rivoluzionaria dell’arte.

D: Grazie Jan, sono le 4 e sono costretta ad augurarti buona notte… inizio ad essere davvero stanca…
JF
: Io sono completamente sveglio. La notte non dormo, lavoro

Qualche domanda a Costanza Macras.

19 Dic

 COSTANZA MACRAS ….www.dorkypark.org
testo di Elena Basteri 

Intervista fatta e pubblicata da vonLudwig-Styles Report Berlin www.stylesreportberlin.com

 

Creare caos, promiscuià, scenari assurdi, bombardare lo spettatore con suoni, musica dal vivo, scenografie e costumi appariscenti è la formula che si ripete, con diverse declinazioni e tematiche, nel teatro danza di Costanza Macras, coreografa argentina alla ribalta della scena berlinese ed internazionale. Attingendo dalla cultura trash, pop e dal glamour à la Terry Richardson, le sue pieces sono un collage caotico e coloratissimo di movimento, testo, video e musica. Come in Scratch Neukoelln (2004), dove per parlarci della malleabilità e della permeabilità dell’identità culturale oggi, la Macras affianca ai performers della sua compagnia Dorky Park, ragazzini di famiglie immigrate della scena hip hop del quartiere multietnico berlinese. Il tema della spazzatura, delle macerie come ciò che rimane del passato nella memoria presente è al centro di Back to the present (2003), spettacolo messo in scena significativamente per la prima volta in un ex centro commerciale berlinese. Dopo una tournee a New York, Minneapolis e Seattle lo spettacolo tornerà in Europa per La grandes Traversee di Bordeaux (23-30 novembre) dove della Macras verranno mostrati, tra gli altri, Big in Bombay, Sure, shall we talk about it? e I’m not the only one. Il rapporto di coppia, la fragilità e caducità dei sentimenti sono i temi che affiorano dal rifacimento shakespeariano di “Sogno di una notte di mezza estate“, ultimo lavoro della coreografa, codiretto insieme a Thomas Ostermeier, direttore dello Schaubuehne, e ancora in questo teatro dal 6 al 9 ottobre.
Nel 2001, per la sua “prima volta” in questo teatro, la Macras aveva spostato l’azione dal palcoscenico ai bagni dei signori. Anche questa volta lo spazio è usato in maniera anticonvenzionale e giocosa: l’accesso al teatro da parte del pubblico avviene dal retro, si entra dalle quinte per trovarsi catapultati sul palcoscenico dove è in pieno svolgimento, con musica che raggiunge decibel da rave, un party selvaggio, una sorta di carnevale osceno. Veri e propri animali da party danno il benvenuto ai nuovi ospiti in tutine di raso rosa o abitini da eroine di cartoni giapponesi, offrendoci coppette di cocktails colorati. Dopo mezz’ora di scompiglio in cui pubblico e performers si mescolano e si confondono, ognuno recupera il suo ruolo. Spunta Oberon, il re degli elfi con stivali e cappello texani in boxer succinti, poi Puck il folletto pestifero nelle vesti di torero androgino post moderno. Inizia lo show ma non per questo finisce il caos anzi se possibile aumenta esponenzialmente per tutta la durata dello spettacolo.

Cosa hai portato con te dall’Argentina nel tuo bagaglio reale e virtuale, quando sei partita?

Una valigia piena dei miei vestiti preferiti, foto e regalini da parte dei miei amici.
Ma l’idillio è durato poco: arrivata ad Amsterdam la mia valigia è stata rubata. Ero disperata, a vent’anni ero molto fissata con i vestiti, e poi anche perché non avendo abbastanza soldi per rifarmi il guardaroba ho passato due mesi vestita come un clochard, con un paio di jeans di una taglia sbagliata prestati da un amico.
Nel bagaglio “interno”, invece, avevo molti sentimenti contrastanti: ero da una parte arrogante e determinata ma anche molto timida. Non volevo dare l’impressione di voler “rubare” il lavoro a nessuno. Avevo studiato moltissimo e mi ero preparata duramente perché volevo entrare nel Netherland Dance Theatre, dove poi non sono stata presa. Molta gente mi trattava con accondiscendenza, come la poveretta dal terzo mondo mentre io, provenendo da una famiglia di classe media, non ho mai conosciuto la povertà. Non saprei dire cosa conservo in me della persona che ero quando ho lasciato l’ Argentina, quel che è certo è che ci ho messo molto a diventare quella di ora.

Cosa ti ha portato e trattenuto a Berlino nel 1995?

Prima del 1995, anno in cui mi sono trasferita definitivamente ero già stata una volta a Berlino con un amico che aveva un progetto qui e mi sono innamorata a prima vista della città. Era così diversa da tutte le altre che avevo visto fino a quel momento. Berlino era in movimento, si trasformava sotto i miei occhi. Le altre città occidentali hanno una struttura già determinata e sono più statiche. Berlino aveva un’energia speciale sicuramente determinata anche dalla convivenza, in uno stesso spazio urbano, di anime tanto diverse come quella dell’est e dell’ovest Europa. Tornata ad Amsterdam ho partecipato ad un’audizione per Berlino e sono stata presa, così è iniziata l’ avventura.

Berlino è una città attraente da molti punti di vista per gli artisti di tutte le discipline. Mi immagino che sia difficile all’inizio emergere nello sgomitamento generale per farsi notare.


Si non è stato proprio facile all’inizio. Ma Berlino non è comunque paragonabile a New York dove ho pure vissuto e dove è molto più arduo. A Buenos Aires poi hai la possibilità di fare qualcosa solo se sei già qualcuno affermato. Qui è stato facile trovare gli spazi giusti e ben attrezzati tecnicamente. Si può lavorare a livello professionale anche senza essere già famoso. Al Sophiensaele ad esempio danno molto spazio e sostegno ai giovani.
La mia gavetta, comunque, è durata circa quattro anni dopo di che nel 2001 ho realizzato il mio primo spettacolo.


Parlando del tuo processo creativo: una volta scelto il tema di una coreografia come procedi per determinarla? Quanta libertà di autocoreografarsi lasci ai performers?

www.dorkypark.org

  

All’inizio fornisco ai performers testi e materiale affinché studino. Dopo di che io propongo, do input per le improvvisazioni e loro lavorano su quelle liberamente. Ma poi la cosa è molto soggettiva, nella mia compagnia c’è gente molto diversa tra loro, ci sono ballerini ma anche attori. Ognuno per la sua esperienza o formazione è insostituibile.Con alcuni devo lavorare di più con altri di meno. La libertà però rispetta i limiti della struttura dello spettacolo. I miei pezzi sono normalmente molto strutturati, altrimenti il caos prodotto sul palco non funzionerebbe, se non “ordinato” in modo preciso.

Sei stata definita la regina del trash, i tuoi palcoscenici strabordano di cose. Come ti poni verso le tendenze attuali della danza ad un certo concettualismo minimalista?

Tutti dicono che le mie performance sono caotiche ma il caos prodotto da me è nullo rispetto a quello della vita reale! Basta osservare il tran tran in una piazza o in una strada per trovare situazioni molto più caotiche e complesse.
Per quanto riguarda il trend minimalista credo che ci siano diversi modi di vederlo: in molti casi credo ci sia anche un fattore economico ad influenzare il vuoto sul palcoscenico.
Non tutto ciò che vedo di questo filone mi piace ma quando il concetto è chiaro e funziona possono vedersi cose molto interessanti. Jerome Bel ad esempio mi piace perché è onesto in ciò che fa. Ma ciò che è triste è vedere chi cerca di imitarlo. Ciò che apprezzo del suo lavoro è la semplicità e il fatto che lascia alla gente il tempo per pensare. Non trovo il suo lavoro intellettuale anzi al contrario per me è semplice scoprire il meccanismo che sta alla base dei suoi pezzi. Mi è piaciuto moltissimo ad esempio il lavoro su Susanne Linke, (Le dernier spectacle, 1998, ndr) per l’ estrema accuratezza con cui ne ha ripreso i dettagli.


Tra il novero dei big, c’è qualche coreografo/a da cui ti senti particolarmente influenzata?

Non ho modelli particolari o nomi a cui faccio riferimento. Magari mi è piaciuto molto qualcuno che poi però è cambiato o io sono cambiata e non mi è più piaciuto. Per fare qualche nome ammiro molto Cunningham ma facciamo cose completamente diverse. O Pina Bausch… ma chi non ammira Pina Bausch?!

Qual’ è la sfida della danza contemporanea oggi?

Portare la gente a teatro e coinvolgere un maggior numero di persone soprattutto coloro che pensano erroneamente che la danza contemporanea sia qualcosa di oscuro, di difficile comprensione. Per i coreografi non c’è più il problema di essere originali ad ogni costo, ciò che conta è che la gente continui a porsi domande. La stampa berlinese ha ventilato più volte l’ipotesi di te come erede di Sasha Waltz allo Scahubuhne a fianco di Ostermeir. Sogno di una notte di mezza estate è stato la prima esperienza di co-regia. Come è andata, terreno fertile per una continuazione?

Avevo già avuto esperienza di co-regia con Lisi Estaras in No wonder. Quella volta è stato faticosissimo e molto stressante anche se Lisi è una mia cara amica. Con Thomas Ostermeier è andata molto bene. Eravamo tutti e intimoriti e consapevoli dai rischi che il lavorare insieme può comportare. Ciò ci ha reso molto previdenti e rispettosi. Non ho dovuto fare compromessi o rinunciare a scelte personali, ci siamo sempre coordinati con estrema naturalezza. A cominciare dalle audizioni: abbiamo fatto improvvisare i ballerini in coppie e ci siamo resi conto entrambi che quella era la strada interessante, abbiamo visto che il materiale su cui lavorare era enorme.

Intervista a Ives Lebreton (molto interessante)

23 Nov

L’inaspettato morso del teatro

di Noemi Bertuetti           

 www.drammaturgia.it

 

Montespertoli, Villa dell’Olivo. Durante la permanenza di un gruppo di allievi per un laboratorio residenziale di Mimo corporeo, Yves Lebreton si è offerto gentilmente di rispondere alle domande di una studentessa universitaria affascinata dalla sua straordinaria vita artistica e impegnata nella stesura della sua tesi di laurea dal titolo Yves Lebreton: il teatro corporeo (Università di Bergamo, Anno Accademico 2004-2005, tutor prof. Anna Maria Testaverde). Davanti ad un camino scoppiettante, sorseggiando vino rosso e giocando con la sua poetica comicità Monsieur Baloon traccia con semplice leggerezza la strada che l’ha portato al Teatro.

 

Che cosa l’ha spinta ad avvicinarsi al mimo corporeo e a entrare nella scuola di Etienne Decroux?

Nessuna decisione, solo il caso. Prima di intraprendere la via del teatro la mia passione era la musica. Studiavo il violoncello, il pianoforte e volevo dedicarmi alla composizione musicale. I miei Maestri erano Arnold Schoenberg, Pierre Boulez, Karleinz Stockhausen, e soprattutto Anton Webern. Contemporaneamente seguivo i corsi all’Accademia delle Belle Arti che preparava al diploma d’insegnante per le scuole elementare e superiore. Il disegno e la pittura erano per me dono della natura. Era l’unica materia a scuola dove ero sempre il primo della classe. Da bambino disegnavo ovunque: sui quaderni di matematica o di francese, sui muri di casa e sui marciapiedi. Mi risultava facile e mi piaceva. Forse ho acquisito questo dono per eredità, visto che sia mio padre sia mia madre avevano seguito una formazione alle Belle Arti.

L’insegnamento della pittura all’interno dell’educazione nazionale francese avrebbe dovuto garantirmi una sicurezza materiale per permettermi di proseguire la mia ricerca musicale al riparo da ogni pressione e compromessi commerciali. La mia strada era tracciata. Ma non avevo fatto i conti con l’imprevisto. Durante i miei studi all’Accademia delle Belle Arti, si è presentato, un giorno, un maestro che insegnava nella scuola elementare situata a fianco dell’Accademia: Mr. Rubac. Questo maestro era appassionato al teatro e sognava di poter creare una compagnia teatrale in grado di interpretare i testi da lui scritti. Ha presentato il suo progetto invitando a partecipare gli studenti dell’Accademia interessati a lanciarsi in quest’avventura. Così, stimolato dalla curiosità ho risposto al suo invito insieme ad una decina di studenti. Ogni sera, quando i corsi dell’Accademia erano chiusi, ci ritrovavamo sulla pedana della classe di Mr. Rubac per provare e divertirci insieme. Un anno dopo, la pedana era diventata un palco e la classe un vero teatro con un pubblico da affrontare. Nel momento della rappresentazione, immerso nell’emozione palpitante del mio personaggio, nel grido disperato che egli doveva urlare in scena : «Ah! les salauds… » («Ah! i mascalzoni… »), ho sentito uno strano piacere, una sorta d’ubriachezza fisica che mi ha colpito dall’interno e con essa, la voglia del suo rinnovo. A mia insaputa il teatro mi aveva morso e aveva seminato in me il desiderio di proseguire l’esperienza. Ma sentivo, già, anche se confusamente, che il teatro di prosa pseudo-realistico, il teatro di testo non rispondeva alle mie aspirazioni. L’attenzione alla sola recitazione del testo mi sembrava troppo riduttiva di fronte all’emozione interiore che invadeva la totalità della presenza fisica in scena. Intuivo che le parole dovevano radicarsi più profondamente nel tessuto corporeo. Questo distacco tra il parlare e l’agire mi ha portato a cercare le vie della loro unione.

Parallelamente avevo coltivato da anni, prima ancora della mia passione per la musica e il teatro, un gusto per l’arte poetica. Come tanti adolescenti ho scritto in segreto delle poesie. Arthur Rimbaud, Lautréamont, il simbolismo, il surrealismo e soprattutto il dadaismo di Tristan Tzara mi avevano davvero colpito. La poesia si presentava allora come il punto d’appoggio più immediato per provare a sperimentare uno spettacolo in grado di unificare il verbo al corpo, rompendo, però, i limiti del realismo psicologico legato al teatro di prosa.

Ho allora concepito un montaggio basato su delle poesie di Arthur Rimbaud, Tristan Tzara e Saint-John Perse inerenti ad un tema centrale presentato in un prologo con questa citazione di Perse: «Car c’est de l’homme qu’il s’agit et d’un agrandissement de son oeil intérieur» («Poiché è dell’uomo che si tratta e di un ingrandimento del suo occhio interno»). L’insieme delle poesie doveva essere recitato a quattro voci (solisti e a cappella) su una base musicale creata a partire dall’opera Les corps glorieux per organo d’Olivier Messiaen.

Il progetto era ambizioso, ma mi mancavano i mezzi e in particolare il modo di collegare la voce recitante al movimento corporeo. Ho chiesto consiglio a Mr. Rubac che mi ha indirizzato verso la scuola d’Etienne Decroux al fine di acquisire i rudimenti dell’espressione corporea. Non avevo mai sentito parlare di questa scuola fino ad allora. E senza pensarci troppo mi sono presentato. Lo stesso Etienne Decroux mi aprì la porta. Mi sono iscritto nella sua cucina. Mi sono cambiato nella sua soffitta insieme ad altri studenti. Ho sceso le scale della sua cantina dove si trovava il suo studio e mi sono messo in un angolo. Ho iniziato ad eseguire gli esercizi in silenzio, a scoprire che avevo un collo sotto la testa, un busto, una cintura, un bacino, delle gambe, dei piedi appoggiati a terra, delle braccia sospese nell’aria, delle mani con cinque dita, degli occhi in grado di orbitare e un corpo totalmente ignorato dalla mia mente. Man mano che i giorni si succedevano, in questa cantina, mi sono reso conto che i rudimenti dell’espressione corporea da acquisire non esistevano, che tutto era da scoprire e che questa scoperta esigeva un’assidua pratica di molti anni. Ho allora capito che dovevo chiudere il progetto del mio spettacolo poetico per dedicarmi con umiltà alla sola conoscenza di questo strumento favoloso: il corpo attraversato dalla mente, la mente attraversata dal corpo. I giorni diventavano sempre più stretti per fare coabitare con lo stesso rigore lo studio musicale e quello del Mimo corporeo. Il mio violoncello si ribellava a questa seconda passione con degli stridori sempre più pronunciati. Chiedeva, giustamente, l’esclusiva della mia attenzione. Né la musica né il teatro si possono praticare a metà. La scelta era, dunque, inevitabile. Scegliere fu difficile e doloroso. Guidato dalle parole di Bertold Brecht: «Il teatro è un uomo che parla ad un altro uomo», ho scelto il teatro per la sua umanità. Ho richiuso il mio violoncello nella sua custodia e l’ho riportato al mio professore di musica con sofferenza. Volevo dare un taglio netto. Ogni scelta è crudele e conserva nel profondo delle sue pieghe la persistenza del dubbio. Tuttora rimane la nostalgia per questo amore sacrificato e, ogni tanto, quando vedo la mediocrità della realtà teatrale che mi circonda, mi viene il rimorso. Ma non si può tornare indietro.
                                                                         "No One"


 

Qual è stata la caratteristica della personalità di Decruox che l’ha maggiormente colpita?

Sicuramente, il suo senso dell’assoluto. Decroux non accettava nessun compromesso. Esigeva tutto e subito. Non accettava la facilità, il movimento eseguito a metà, la sbavatura, la mancanza di rigore. «Dobbiamo soffrire per essere belli… Vendo unicamente cose care» amava dire. Spingeva sempre il corpo al limite del suo possibile, non necessariamente nella sua bravura ginnica, ma nella sua esigenza interiore. Mi ricordo la sua indicazione spesso ripetuta durante le sue lezioni: «Non dobbiamo fare dell’ordinario con dello straordinario, ma dello straordinario con dell’ordinario». Cercava la verità dell’atto. Non la verità stanislavskiana in chiave psicologica rispetto ad un personaggio inserito in una situazione, ma la verità del corpo nel suo confronto con l’esigenza del movimento da compiere, sia a livello del suo disegno nello spazio, che a livello dinamico e ritmico nel tempo. Questo confronto doveva essere totale e nutrito dalla mente attraverso immagini e sensazioni. Solamente attraverso il rispetto della sua integrità, lo studente poteva raggiungere l’autenticità indispensabile al risveglio del respiro interiore al movimento. Il rigore si mutava allora in etica di lavoro.

Questo fascino per l’alchimia del movimento ha portato Decroux a considerare lo studio del corpo più importante che il suo utilizzo, l’arte del movimento era più importante che il movimento dell’arte. Benché Decroux abbia realizzato, all’inizio, delle tournée anche internazionali con i suoi spettacoli, in seguito ha capito che il mercato teatrale era un pericolo per la sua ricerca fondamentale. Allora ha girato le spalle alla commercializzazione dei suoi spettacoli senza però rinunciare alla creazione. Decroux, infatti, creava con i suoi studenti. Non spettacoli capaci di rispondere alle esigenze del commercio teatrale, ma pièces da cinque o dieci minuti sulle quali lavorava mesi o anni e che venivano presentati nella sua cantina per gli allievi della sua scuola e un cerchio ristretto di intimi. Se ne fregava delle conferenze stampa, dei giornalisti, impresari, direttori di teatri o dei festival. Sicuramente, però, avrebbe apprezzato la possibilità di presentare le sue opere in teatro davanti ad un vero pubblico, ma per ottenere ciò non era disposto a pagare il prezzo di un compromesso con il commercio teatrale e nemmeno voleva perdere il suo tempo contrattando con dei gestori culturali ignari della sua arte. Per questo preferiva creare nella sua cantina di soli quaranta metri quadrati, su un pavimento di linoleum blu e con due riflettori accesi su una semplice tenda bianca stesa in fondo alla sala.

Certamente nel corso degli anni Decroux aveva costruito una tecnica del movimento con degli esercizi precisi e progressivi, ma la sua scuola non era un accademia dove si studiava un metodo immutabile, al contrario, era un laboratorio, un campo di sperimentazione. Ha preferito agire nell’ombra della scena che sotto le luce dei riflettori. Per questo motivo il gran pubblico, i mass-media e le istituzioni l’hanno sempre ignorato mentre era in vita. Adesso che è morto la comunità teatrale inizia a realizzare l’importanza del suo lavoro. Come al solito! L’assenza di spettacolarità dell’opera di Decroux viene spesso considerata, da alcuni, come una debolezza della sua arte. Al contrario, io la considero il suo punto di forza, come l’espressione della sua purezza artistica.

Decruox ha affermato: «Ma possiamo mescolare il mimo e la parola? Si, quando tutte e due sono poveri, giacché in tal caso l’uno completa l’altro. Ma uno dei due può mostrarsi riccamente? Si, nella misura in cui il secondo si mostra poveramente». Detto altrimenti: Quando due arti si producono insieme, l’una deve indietreggiare se l’altra avanza e viceversa. «Inoltre il mimo» pensavo, ha di meglio da fare che completare un’altra arte». Lei condivide questa supremazia del gesto sulla parola?

Nella lenta evoluzione dell’umanità il linguaggio parlato è apparso tardivamente. L’uso della parola non è un dono del cielo, ma il risultato di una progressiva trasformazione dell’uomo nella sua interazione con l’universo. Possiamo supporre che l’uomo arcaico si esprimesse soprattutto attraverso il suo corpo, per mezzo di gesti arricchiti da pulsioni vocali, più tardi per mezzo di grida sempre più articolate in fonemi strutturati tra di loro e progressivamente, tutto ciò ha portato alla nascita del linguaggio parlato.

Più che primitiva, però, l’espressione del corpo è primaria. Infatti il corpo è la sede del nostro pensiero: prima di parlare, pensiamo o sentiamo con il nostro corpo. Tutto lo attraversa e tutti i linguaggi dell’uomo gli sono tributari. Il pittore, lo scrittore, lo scultore, il musicista producono la loro arte tramite la presenza del loro corpo. Il corpo è la sorgente di tutti i linguaggi. Senza corpo l’essere umano perderebbe la propria identità e ciò lo condurrebbe alla morte. Siamo vivi proprio perché la nostra coscienza è incarnata nel nostro corpo come il nostro corpo incarna la nostra coscienza. Nessuno può esistere al di fuori del suo corpo. Ma se la parole hanno bisogno del supporto corporeo per essere espresse, il corpo non ha bisogno della parole per essere espressivo. Il corpo è ovviamente primario sulla parola e la sua supremazia è un dato di fatto.

Nel 1969 Decroux la espulse dalla sua scuola a causa della sua decisione di compiere un’esperienza con Grotowski. Che cosa l’ha spinto verso l’attività di Grotowski?
Avevo sentito dire che Grotowski poneva l’arte dell’attore al centro dell’evento teatrale con un ritorno decisivo verso la sua realtà corporea. Queste due premesse erano in totale sintonia con le idee di Etienne Decroux sul teatro. Basta leggere il suo articolo «La mia definizione del teatro» per verificare che Decroux prefigurava già in 1931 la concezione del Teatro povero di Grotowski. Nel suo libro, Decroux scrive testualmente questo paradosso: «Più un arte è povera, più è ricca». Visto la convergenza tra Decroux e Grotowski su questi punti, il mio interesse per la ricerca di quest’ultimo era dunque naturale.

Quando Decroux fu informato dalla mia intenzione di andare a Wroclaw per studiare con Grotowski, effettivamente mi espulse dalla sua scuola. La sua decisione era in perfetta concordanza con i principi della sua etica. Si sapeva che per potere seguire le lezioni di Decroux, gli allievi dovevano conformarsi a due regole semplici: non prodursi in spettacoli e non seguire altri corsi teatrali. Il rispetto di queste regole non è mai stato richiesto in maniera esplicita, ma si sapeva che Decroux voleva preservare i suoi allievi da esperienze esterne. Non sono mai stati, però, applicati in maniera rigida. Durante la mia presenza nella sua scuola, Decroux ha saputo, per esempio, che uno dei suoi allievi lavorava come attore nella compagnia di Ariane Mnouchkine, ma ciò non ha creato nessuna rottura. Se, invece, veniva a conoscenza del fatto che qualcuno studiava anche con Marceau o Lecoq, l’espulsione era molto più probabile. L’allievo doveva scegliere la sua direzione artistica e Decroux non voleva perdere tempo a lavorare con una persona che non era del tutto convinta dello studio nella sua scuola. Tutto questo era coerente e giustificato.

Decroux non mi ha mai spiegato i motivi della mia espulsione. Dopo più di quattro anni di studi l’espulsione fu traumatica e dolorosa, ma anche benefica perché consideravo maturo il tempo di lasciare la scuola. In realtà avrei desiderato studiare ancora un anno, ma non sapevo se avrei resistito ai due anni supplementari. Ero conscio che per attraversare tutta la tecnica di Decroux, erano necessari circa sei anni. Ma la potenza di Decroux iniziava a pesarmi, sentivo sempre di più la necessità di respirare altrove per rigenerarmi. L’esperienza con Grotowski era concepita in questa direzione. Ho chiesto una borsa di studio alle autorità francesi per potere andare in Polonia per tre mesi. La borsa di studio non fu accettata e mi sono ritrovato finalmente libero.

Più tardi, quando mi sono avvicinato alla pratica del training grotowskiano, ho realizzato che il rifiuto da parte delle autorità francesi mi aveva infatti salvato da un pericolo: la confusione. Se Decroux e Grotowski sono convergenti su alcuni aspetti sono totalmente divergenti nella maniera di affrontare la pratica dell’attore e anche nello spirito. Decroux ha sempre rivendicato l’importanza della tecnica, dello studio rigoroso del movimento corporeo ponendo il corpo come una realtà oggettiva che l’attore doveva affrontare, scoprire e addomesticare prima di attingere alla sua libertà espressiva soggettiva. Chiedeva all’attore un comportamento simile ad un musicista di fronte al suo strumento con la differenza che per l’attore lo strumento è la sua propria identità. Inoltre, Decroux ha sempre elaborato la sua tecnica a partire della sola osservazione del corpo in movimento senza appoggiarsi o utilizzare altre tecniche corporee estranee alla sua visione. Per Grotowski invece, la tecnica non era che un pretesto per canalizzare la soggettività dell’attore, metterla alla prova, snodarla dai suoi blocchi psicofisici e provocare il sorpasso di se stesso verso la verità dell’atto: la tecnica o la conoscenza dello strumento attoriale in sé e per sé non esisteva. Ogni movimento del suo "physical training" doveva, appena acquisito, essere trasformato attraverso dei cambiamenti motivazionali, riportando la realtà oggettiva del movimento a quella soggettiva dell’attore. Grotowski si è spinto fino a mettere in discussione l’importanza stessa del training o almeno di un training strutturato come passaggio obbligato, per intravedere un training personale e individuale per ciascun attore, l’oggettività dell’attore diveniva allora totalmente immersa e dipendente dalla sua soggettività. L’unica esigenza oggettiva rimaneva la precisione e la consapevolezza nell’agire. In più, il suo physical training, come presentato nel suo libro "Per un teatro povero", era un amalgama di diversi esercizi proveniente dal lontano Delsartre, dalla biomeccanica di Meyerhold, dallo Yoga, dal Katakali e dall’acrobazia circense.

L’approccio fisico dell’attore che proponeva era totalmente opposto a quello di Decroux. Questo antagonismo mi avrebbe sicuramente portato alla confusione più totale o, più verosimilmente, al rifiuto della via Grotowskiana perché ero già troppo convinto dello sguardo oggettivo di Decroux sull’arte dell’attore.

Quanto alla loro differenza di spirito, la semplice riflessione di Decroux a proposito d’Antonin Artaud la puoi chiarire: «Artaud è un uomo della notte, io sono un uomo del giorno». Grotowski appartiene, come Artaud, alla notte. Non c’è nessun giudizio di prevaricazione in questa differenza, solamente la constatazione di un differenza d’appartenenza:il genio delle tenebre esiste come il genio della chiarezza. Vivaldi appartiene alla chiarezza, Beethoven all’oscurità. Ho sempre avuto un solo Maestro e l’unicità della sua luce mi ha permesso di costruire progressivamente la mia.

Al di fuori di Decroux non ha mai sentito l’influenza di altri Maestri?

Si, naturalmente. Uso, però, il termine di Maestro in un senso ben specifico. Per prima cosa un Maestro è una persona che si sceglie; secondo, è una persona con la quale si intraprende un lungo percorso pratico; terzo, egli è il punto di partenza della propria traiettoria personale. In quest’ottica Decroux è il mio unico Maestro. Ovviamente lungo questa traiettoria o all’interno di essa si aprono delle finestre che guardano altri mondi: ad esempio il pittore Wassily Kandinskij con il suo libro "Spiritualità nell’arte" è uno di essi, nello stesso modo anche Adolphe Appia, Constantin Stanislavski, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Samuel Beckett o J.S.Bach ecc. Ma seguendo quest’ottica si possono trovare Maestri dappertutto. Sono molto diffidente nei confronti dei "les Maîtres à penser" (i maestri da pensare) perché non fanno che rinforzare l’incapacità dell’essere umano ad assumersi. Troppo spesso ci si nasconde dietro un Maestro sperando di trovare se stessi sotto la sua guida, ma, in realtà non si fa che perdersi nelle mani altrui.

Il Maestro è, invece colui che ti permette di diventare il Maestro di te stesso. Non posso dire che Decroux mi abbia aiutato molto in questo. Ho dovuto lottare tanto per liberarmi della sua impronta, ma gli sono riconoscente di avermi aperto la via della sua purezza: il suo giorno ha fatto luce in me.

Il vero Maestro è contemporaneamente dentro e fuori di te, nello spazio che ti abita e nell’universo che ti circonda, nella vita che batte, scintilla, illumina, ma che spesso non sappiamo ascoltare.

Lo scultore Antoine Bourdelle ha detto un giorno: «Tutto è bello per chi sa vedere». Tutto parla per chi sa ascoltare.

Che tipo di attività svolgeva con la compagnia teatrale di Parigi: faceva spettacoli, laboratori..?

Facevo spettacoli come tutte le compagnie, si produce uno spettacolo, poi si porta in giro.

 

Lavorava già sul corpo energetico?
Ho cominciato subito a lavorare sul corpo energetico. Le prime esperienze che ho fatto dopo la scuola di Decroux erano già orientate in questa direzione, ma la visione del corpo energetico, a quel tempo, non era assolutamente chiara. Era la prima spinta, e la prima spinta è un po’ come l’esercizio del delirio della quale vi ho parlato nel pomeriggio. Il lavoro in questa prima fase consisteva, come nel delirio, nel "viaggiare" con i propri fantasmi. Si lavorava a terra, protetti da dei materassi per le cadute, si trattava di esplodere in tutte le direzioni, per questo c’era il tappeto che ti sosteneva e ti permetteva di scatenarti. Era unicamente un’esplosione, nessun lavoro mentale, era tutto basato solo sull’istinto, sulla spontaneità, sul riflesso. Non si doveva pensare, e non si doveva pensare al movimento, ma esplodere, esplodere il più veloce possibile, in modo da non prendere coscienza del movimento stesso. E poi, con il tempo, questo lavoro ha portato la necessità di ricercare altri elementi.

La nascita di una compagnia o di un centro danno poco tempo alla ricerca… e un pittore che non dipinge… Tutto quello che comporta una compagnia sacrifica la ricerca, il lavoro sopra la propria Arte. Il centro avrebbe potuto bilanciare, si sarebbe potuto andare in tourné e nello stesso tempo avere un centro, una base, dove si sarebbe potuto continuare l’attività di ricerca e di esplorazione della tecnica.

Perché proprio Firenze?

È stata una scelta esistenziale. Comunque l’Italia è un bel paese e il pubblico italiano è favoloso. Ogni tanto mi stanco del pubblico italiano e dell’Italia, però appena torno in Francia per fare spettacolo, sono contentissimo di ritornare in Italia. Il pubblico, qui, è molto più "aperto mentalmente" rispetto a quello francese che vuole assolutamente capire, capire, e che non riuscendo a capire si annoia. Invece il pubblico Italiano è disposto a giocare, a prendere la pallina al volo, si lascia prendere dal divertimento. Solo alla fine cerca i simboli e le altre cose nascoste. Ma prima di tutto si lascia coinvolgere!

L’attività di pedagogo e di fondatore di una sua scuola è tra i suoi progetti futuri?

Mi vuoi fare un’offerta! Sarebbe una bella scelta, ogni tanto ci penso. Ma fondatore.. per carità! Sto assecondando un interesse: privilegiare la ricerca e l’insegnamento rispetto alla fondazione di una scuola. E poi, sinceramente, credo che non funzionerebbe più rispetto al contesto culturale teatrale così degradato. Tutto crolla, il pubblico degli spettacoli diventa più superficiale… forse se cambiasse il paese, se si facesse la rivoluzione… ma per il momento è così, speriamo che passi perché in Italia c’è davvero un bel pubblico. Fino a poco tempo fa era un paese molto vivace culturalmente, adesso lo stesso pubblico è diventato, purtroppo, imbecille, perché è abituato agli scherzi e alle gag della televisione. Va a teatro e si aspetta le stesse cose e quando tu gli proponi una certa "poesia" sembra che non capisca più nulla, o che capisca con cinque minuti di ritardo. Invece venti anni fa entrava nella poetica senza problemi. Tutto questo è molto grave…  

Quindi mi dedico all’insegnamento nei laboratori e alla ricerca, perché ritirarmi ad insegnare in una scuola, credo sarebbe rischioso. È molto pericoloso imprigionare il movimento e l’arte è movimento. Quando fondi una scuola, alla fine diventa un’accademia, nasce l’istituzione, e da questa si creano dei filoni… e c’è chi ha capito,e chi non ha capito. Alcune volte è meglio lasciare le cose così come stanno.

 

Per ulteriori informazioni :http://www.yves-lebreton.com